L’attività sportiva non è una “zona franca” dove tutto è lecito pur di conquistare il podio! Durante la pratica di tale attività, in ragione della carica agonistica e della possibilità che si verifichi un contrasto tra atleti, è ragionevole attendersi la realizzazione di illeciti in danno dei partecipanti. È dunque necessario distinguere quando la Giustizia ritenga un atleta penalmente responsabile di un evento lesivo da lui provocato e quando invece consideri non punibile la lesione cagionata durante lo svolgimento di un’attività sportiva.
La giurisprudenza ha distinto l’attività sportiva in tre categorie:
1. necessariamente violenta in cui il contatto fisico, anche cruento, è alla base dell’attività stessa (es. il pugilato);
2. a violenza eventuale ove il contatto fisico tra gli atleti è possibile ma non necessario (es. il basket);
3. a violenza non contemplata in cui il contatto fisico è totalmente escluso (es. l’atletica leggera).
E’ evidente che nella terza categoria non sussistono problemi di interpretazione della condotta tenuta dall’atleta poiché la violenza non è mai consentita; diversamente, dubbi possono sorgere circa le altre due categorie. Per tale ragione, ogni sport ha un regolamento che disciplina l’agire dell’atleta attraverso regole di condotta volte a garantire non solo il regolare svolgimento dello sport medesimo ma anche a limitare eventuali danni provocati da contatti fisici tra atleti.
Il nostro ordinamento giuridico prevende le cd. “esimenti”, ossia ipotesi di non punibilità che escludono la responsabilità penale. Tra le esimenti rientrano le cause di giustificazione, dette anche “scriminanti”. Queste sono desumibili dall’intero ordinamento giuridico e la loro efficacia non è limitata al diritto penale ma si estende al diritto civile e amministrativo. Le scriminanti sono tassativamente individuate dalla legge ed escludono l’antigiuridicità di una condotta che, in loro assenza, sarebbe penalmente rilevante e sanzionabile. In pratica, un fatto generalmente vietato dall’ordinamento dovrà essere considerato lecito ed esente da pena qualora sussista una norma scriminante che lo autorizzi, lo consenta o lo imponga.
Tra le scriminanti disciplinate nel codice penale, quella di cui all’art. 50 c.p., rubricata “Consenso dell’avente diritto”, trova applicazione anche in ambito sportivo.
Tra le scriminanti disciplinate nel codice penale, quella di cui all’art. 50 c.p., rubricata
“Consenso dell’avente diritto”, trova applicazione anche in ambito sportivo.
Il consenso, per essere legittimamente espresso, deve possedere alcuni requisiti:
- essere attuale, libero e informato;
- provenire dal titolare dell’interesse tutelato;
- riguardare un bene disponibile;
- non oltrepassare la soglia dei diritti inviolabili dell’uomo.
La partecipazione a una competizione sportiva comporta l’accettazione tacita e implicita, da parte dell’atleta, dei rischi a essa connessi e, quindi, anche il consenso a condotte di violenza sportiva e a conseguenze lesive alla stessa riconducibili. Ma fino a che punto?
Dottrina e giurisprudenza hanno identificato il concetto di “rischio consentito”, ossia un’area di non punibilità che si basa sul rischio accettabile dal partecipante medio e secondo la quale restano ricompresi nell’illecito sportivo tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni alle regole di svolgimento della disciplina sportiva, anche se pregiudizievoli per l’integrità fisica di un avversario, non oltrepassano il limite del consenso prestato.
In sintesi, non sussiste responsabilità per una condotta che, se pur oggettivamente pericolosa, rientri nei margini di rischio lecito e ammesso di una specifica disciplina sportiva. Solo il superamento di tali margini, che si verifica quando il fatto sia di tale intensità da poter prevedere un serio pericolo a carico dell’avversario, il quale viene esposto ad un rischio superiore a quello accettabile dal partecipante medio, comporta una responsabilità per dolo o colpa dell’atleta agente.
Per cui l’accertamento del rischio consentito è questione di fatto da risolvere in concreto in relazione al tipo di sport praticato.
Dunque, in tema di lesioni cagionate durante lo svolgimento di una manifestazione sportiva, non tutte le violazione del regolamento possono dar luogo a responsabilità penale dell’atleta, bensì quelle sole scorrettezze che si pongano al di là del rischio consentito o che siano commesse per fini
personali.
La Corte di Cassazione infatti esclude l’applicazione della scriminante del rischio consentito (per cui il fatto sarà penalmente perseguibile) quando:
- si superi il limite del fair play proprio ed intrinseco della disciplina sportiva praticata ossia quando si travalichi il dovere di lealtà sportiva esponendo un altro partecipante ad un rischio superiore di quello consentito dalla disciplina stessa ed accettato dal partecipante medio;
- il fatto lesivo si verifichi perché l’atleta violi, volontariamente e coscientemente, le regole del gioco facendo divenire la competizione sportiva una mera occasione per offendere l’integrità fisica dell’avversario.
E’ pacifico dunque che laddove la violenza in ambito sportivo, venga esercitata con dolo, cioè con volontà e coscienza da parte dell’atleta, questi ne risponderà come in qualsiasi altro ambito della vita quotidiana e non potrà invocare una causa di giustificazione sportiva.
Avv. Emanuela Fassino